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PROGETTO DIDATTICA
DIGITALE INTEGRATA
Per una scuola che funzioni.
Ettore Piazza Articolo già pubblicato
Torna fortunatamente l’attenzione sulla scuola, perché, come la sanità, il suo essere o non essere efficiente ha conseguenze positive o negative sull’intera popolazione, per di più ben oltre gli anni scolastici, determinando atteggiamenti e consuetudini nei riguardi della comunicazione e della conoscenza, con ripercussioni sui nostri modi di vivere e di pensare, in un concetto nel nostro essere cittadini, non solo oggi ma anche nel futuro.
Per sapere se funzioni o no ci serve sapere chi valuta i risultati raggiunti dai singoli studenti e dalle varie istituzioni, che si occupano di formazione a tutti i livelli?
Rispondere a questa domanda potrebbe chiarire quali possano essere gli scostamenti tra i risultati attesi da tutti quelli che ne sentono l’esigenza, ancora troppo pochi, e quelli effettivamente raggiunti.
Essendo immersi nella competizione internazionale, possiamo tenere conto delle indagini che comparano le abilità degli adulti e degli studenti a livello mondiale?
E che valore vogliamo dare ai nostri test nazionali o alle classifiche delle scuole?
Gli assi portanti dei percorsi formativi sono in linea con le indicazioni europee, tanto da influire sull’attività didattica praticata?
Valgono i risultati degli esami finali dei vari percorsi o quello che accade dopo, per sapere giudicare meglio i risultati e portare cambiamenti?
Quanto deve contare la effettiva richiesta di professionalità, in relazione alle competenze più che ai titoli di studio, proveniente dal mondo del lavoro?
Come e quanto i livelli superiori, dal secondario al postuniversitario, debbano essere protagonisti dell’innovazione?
In che cosa deve consistere la soddisfazione e lo star bene di operatori e discenti?
Possiamo contemporaneamente sviluppare le potenzialità, per far emergere i talenti e colmare le carenze determinate dai livelli di partenza o accumulate lungo gli anni?
Quanto spazio debbono avere le nuove tecnologie nele competenze di base?
I modelli organizzativi fanno la differenza dal punto di vista dell’apprendimento?
Sono coniugabili con quelli sanitari imposti dalla pandemia? Questa è la domanda che non ha trovato risposta negli ultimi due anni perché va posta dopo aver risposto alle precedenti in modo organico e collegato.
La valutazione dei risultati dei processi formativi è in carico a chi può modificare, avendone il potere, anche una minima parte dell’intero processo educativo e formativo.
Riguarda quindi il singolo insegnante e ogni alunno o studente, i genitori e il consiglio di classe o di plesso, il dirigente con il Collegio Docenti e il Consiglio di Istituto, le Autorità Locali con le Organizzazioni Datoriali e Sindacali, per poi salire ai livelli regionali, nazionali, internazionali.
Se tutti i protagonisti praticano l’autovalutazione per essere pronti al momento dell’essere valutati, siamo sulla giusta via. Senza la ricaduta di una valutazione esterna che venga accettata e porti a modifiche di comportamenti, il sistema non migliora, ma all’avanzare degli altri paesi, arretra.
Se partiamo dall’idea che questo passaggio non cerca di attribuire colpe, ma segnali problemi da risolvere, oltre ai buoni risultati, capiamo anche che comunque i protagonisti del rapporto insegnamento/apprendimento saranno gli stessi anche dopo qualsiasi livello di valutazione, che serve proprio per dare nuovi traguardi agli uni e agli altri, suggerendo possibili soluzioni, senza severe stroncature, ma aperture di ulteriori possibilità di successo, diverse e più adatte ai singoli e ai contesti..
Le indagini comparative internazionali possono dare molte informazioni su quali indicatori porre l’attenzione nel valutare, fornendo spesso gli standard che descrivono praticamente che cosa devono saper fare i cittadini per collocarsi ai livelli più alti, rispetto a quello in cui si trovano.
Aumentando le capacità delle persone in termini di competenze, i territori, gli stati e i continenti sviluppano le loro potenzialità. Disponendo di competenze di base aumenta la motivazione all’apprendere, la soddisfazione del procedere nella crescita personale, tanto da porsi nuovi traguardi.
Il rapporto OCSE PIAAC sulle competenze degli adulti, dai 16 ai 65 anni, Svolto in 33 paesi, tra il 2009 e il 2012 e pubblicato nel 2016, colloca l’Italia al 30°posto.
Era questo il risultato atteso o ci sembra incredibile?
Quanti degli autovalutatori potenziali sono stati scossi dalla notizia?
Dobbiamo pensare che non ci riguardi? Forse molti leggendo “literacy, numeracy, problem solving”, non individuano le capacità di comprensione e soluzione di ogni tipo di problema che l’attività quotidiana possa presentare, anche e particolarmente in ambienti tecnologicamente avanzati.
Deve essere chiaro che il possesso di queste competenze è in diretto rapporto con il livello di sviluppo economico, educativo e sociale di ogni paese.
Un secondo segnale d’allarme dice che il massimo delle competenze si raggiunge intorno ai 30 anni, poi decrescono con l’avanzare dell’età, più o meno lentamente in relazione allo stile di vita.
Non sarà da cambiare qualcosa, nel far spazio ai giovani, per non sprecare potenzialità?
Perché mai emigrerebbero i giovani eccellenti, se non vengono immediatamente inseriti nel mondo del lavoro?
Terzo punto critico il livello medio italiano, per tutte le classi di età si colloca al secondo su sei, che è il più alto, mentre i paesi più sviluppati sono mediamente al terzo.
Ci va bene così o desideriamo di più per le presenti e future generazioni?
Ovviamente ci viene ripetuto che più si studia, arrivando ai massimi livelli, più si acquisiscono competenze, che consentono di portare più in alto i livelli di partenza, che mediamente per i laureati italiani è il terzo.
Ci accontenta questo dato o ci aspetteremmo di più, dopo almeno 16 anni di formazione?
Molti in Italia, il 17,5% tra gli under 25, non consegue un diploma, mentre la media internazionale è il 10%. Ci va bene questo livello di abbandono scolastico che produce carenza di competenze?
Questo fenomeno contribuisce ed ha contribuito potentemente a far si che quelli con bassissime competenze in Italia siano il 37,7% contro il 9% dei giapponesi. Abbiamo la febbre alta in fatto di apprendimenti o no?
L’utilizzo delle competenze nei luoghi di lavoro fa si che siano correlate a maggiori retribuzioni, maggior produttività, maggior soddisfazione lavorativa.
L’impegno porta alla soddisfazione, la rinuncia all’aggressività di fronte alle diseguaglianze. Se il 22,4% dei lavoratori italiani ha meno competenze di quelle necessarie per l’occupazione che ha, mentre il 13,3% ne ha di più, possiamo capire come il rapporto tra formazione e lavoro presenti forti criticità, in mancanza di una visione organica che sappia utilizzare meglio le nostre risorse umane.
Se poi consideriamo che quasi il 50% di chi lavora si è preparato per un settore diverso da quello in cui opera, apriamo un’altra pagina rimasta senza risposte, quella dell’orientamento.
Non sarà che l’interazione con il territorio, in piccolo o in grande, sia talmente bassa da creare una falsa o superata immagine dell’attuale realtà del lavoro?
Entriamo con l’indagine PISA, che testa le competenze dei quindicenni, nella valutazione dei risultati dopo 10 anni di scuola. All’uscita dei report, ogni tre anni, seguono tre giorni di polemiche, poi cade il silenzio.
Non sarà che va tutto bene oppure che si debba cambiare, coinvolgendo tutti?
All’edizione 2018 hanno partecipato 79 paesi. Se avesse poco valore, come mai sono tanti i partecipanti, che pagano per farlo?
Se ci fossero altri strumenti le farebbero concorrenza, mentre l’autoassoluzione non costa sul momento, ma si paga salata poi.
Oggetto principale dell’indagine “la capacità degli studenti di comprendere, utilizzare, valutare, riflettere e impegnarsi con i testi per raggiungere i propri obiettivi, sviluppare le proprie conoscenze e partecipare alla società”.
Ne viene fuori una media nazionale che ci pone oltre il 20°posto e sotto la media, raggiunta solo dal Nord Est e quasi dal Nord Ovest, non lontano in centro, ma in difficoltà il Sud e le Isole.
Gli studenti dei Licei vanno meglio, +15%, rispetto a quelli dei Tecnici, che staccano quelli dell’Istruzione e della Formazione Professionale di altrettanto.
Dal 2000, quando iniziò questo tipo di indagine, i risultati non sono sostanzialmente cambiati, anche se sono peggiorati in tutti i tipi di scuola superiore. Tutto bene?
No.
Le classi sociali più elevate si sentono tutelate e per il resto l’ascensore sociale della scuola è rotto e non è in riparazione.
Non raggiunge il livello minimo 2 il 23% degli studenti, trovando difficoltà con materiali nuovi, complessi o lunghi, tanto da aver bisogno di essere sollecitati con spunti ed istruzioni per potersi impegnare.
Guarda caso la stessa percentuale con scarse competenze presente tra i lavoratori adulti.
La scuola dovrebbe far crescere la società, non fotografarla.
Purtroppo anche nello sviluppo dei talenti, contraddicendo il mito del genio italico, la nostra scuola ne annovera tra i quindicenni in lettura, solo il 5%, mentre la media internazionale è del 9%.
La media, non i migliori, che sono al 25%. Necessitiamo di un piano nazionale, supportato dalle nuove tecnologie con obiettivi e scadenze, che veda stimolo, supporto e valutazione come caratteristiche di professionalità diverse, che non devono essere coperte da una sola persona, con conseguenze nelle carriere delle persone e nelle organizzazioni del sistema scolastico.
In Matematica negli anni abbiamo recuperato fino ad essere nella media senza migliorare dal 2009, anche con azioni di aggiornamento degli insegnanti negli anni precedenti, ma in Scienze siamo peggiorati ed in particolare nell’area con i risultati migliori, il Nord Est, proprio mentre si cerca di promuovere la cultura scientifica, a supporto di un’economia tecnologicamente avanzata.
Quelli che non arrivano al livello minimo sono il 24% in matematica, il 25% in Scienze, con un range che va dal 13% del Nord Est, dove è inclusa l’Emilia Romagna, al 38% del Sud Isole, con oltre il 50% a livello nazionale negli Istituti Professionali. Sempre meno i talenti rispetto alle medie internazionali.
Prendiamo ora in esame dei dati del 2020 sulle competenze che le imprese ritengono più importati per favorire gli inserimenti dei tirocinanti.
La carenza più avvertita è quella dello scarso possesso delle competenze linguistiche.
Dobbiamo chiederci da dove derivi questa difficoltà di apprendere la lingua in situazione lavorativa, molto più intuitiva rispetto all’apprendimento scolastico, che spesso presuppone la verbalizzazione di ciò che si potrebbe comprendere dall’osservazione anche a distanza.
Si può mettere in pratica una procedura senza saperla descrivere a parole.
Per ottenere questo risultato si deve puntare sull’osservazione e sulla riflessione, onde individuare i passaggi necessari per ottenere il risultato.
Le parole nella lingua o nel linguaggio settoriale o nel gergo aziendale possono venire dopo e non essere un prerequisito.
Con questa impostazione lo studio delle lingue straniere potrebbe dare migliori risultati anche nei percorsi scolastici, dove manca la certificazione esterna dei vari livelli, fatte le doverose eccezioni.
I livelli previsti in uscita dalla Scuola Media e dal Superiore spesso non sono raggiunti, per non parlare dell’Università, denunciando la relativa importanza assegnata a questo tipo di competenza.
Al secondo posto troviamo la capacità di inserirsi in contesti culturalmente diversi, tanto da avere nostalgia del proprio ambiente di provenienza.
Tutto questo fa parte della formazione all’autonomia in cotesti poco noti, nei quali comprendere regole e valori da rispettare, senza dimenticare le proprie radici.
Gli stage, in queso caso all’estero o comunque lontano da casa, rendono gli studenti consapevoli nelle competenze linguistiche, nell’autonomia e nel fare squadra, mentre i loro insegnanti li vedono tornare conoscendosi più in profondo, più aperti agli altri contesti e più intraprendenti di quanto non fossero a scuola.
Se questi valori sono da incentivare, ne deriva un’indicazione per i modi dell’attività didattica, che dovrebbe previlegiare la metodologia rispetto ai contenuti.
Le aziende al termine delle esperienze vedono più lavoro di squadra e conoscenza del mondo del lavoro, dove conta molto il pensare in anticipo ai possibili problemi per segnalarli ed eventualmente concorrere a risolverli.
Torna con forza l’idea che la scuola creda nel problem solving condiviso tra gli studenti, anche distanti fisicamente tra loro, come asse portante e non nella lezione, più o meno frontale, fonte limitata di conoscenza e di soluzioni.
Entriamo nel mondo degli insegnanti e dei Dirigenti Scolastici. L’età media risulta più alta di 5 anni rispetto agli altri paesi sviluppati, con il 50% dei docenti ed il 20 dei dirigenti vicini al pensionamento, con una forte componente femminile, superiore a quella degli altri paesi.
Nella quasi totalità, a parte qualche preside, dichiarano di avere buoni rapporti con gli allievi, in questo report delle Medie, con tassi di bullismo del 3% che stride col dato internazionale del 14%.
Si tende a negare il problema?
Quando affermano di dedicare il 78% del tempo scuola all’insegnamento apprendimento, hanno mai registrato un’ora di lezione, esaminandola poi cronometro alla mano?
Chi l’ha fatto non ha mai passato il 50%, tra richiami, interruzioni, tempi morti, distrazioni e predisposizioni.
Sempre il 78% dichiara di fornire una valutazione immediata agli allievi osservandoli, ma molti meno fanno costruire agli studenti i criteri di valutazione e ancor meno, il 30%, li fa applicare dagli studenti.
C’è un rapporto con quanto emerso negli stage? Non possiamo dubitarne.
Sempre nel 78% dei casi dichiarano di essere aperti all’innovazione in collaborazione con i colleghi.
E allora perché i dati delle indagini internazionali non migliorano? Si sono sperimentate solo strade sbagliate?
La richiesta di pensare in anticipo alle probabili problematiche nell’apprendimento per superarle trova spazio nelle intenzioni dichiarate?
Forse nel restante 22%?
Questi sono forse quelli che per quanto facciano non è mai abbastanza.
L’unitarietà dichiarata non si sa come si realizzi visto che solo il 5% dei neoassunti segue un percorso di inserimento nella scuola, mentre negli altri paesi la media è il 25% nei primi 5 anni.
Nella leadership educativa i nostri dirigenti non hanno una formazione specifica nel 40% dei casi, diversamente dagli altri paesi.
Tutti i dirigenti e l’85% dei docenti seguono corsi di aggiornamento, ma solo al 25% segue quelli tra pari, con un coordinatore, portando avanti la cooperazione.
Collaboravano davvero quelli del 78%? Ecco come diventano attendibili le indagini, incrociando le risposte.
Con la didattica integrata, divisa tra stimoli telematici potentemente coinvolgenti, supporto alla comprensione ed applicazione in presenza e a distanza e valutazione fatta da specialisti possono cambiare la nostra scuola, a tutti i livelli.
Ettore Piazza Articolo già pubblicato